La Polizia Locale in Italia è anomala. Questo è certo.
Ma è tutto un po’ anomalo nel nostro Bel Paese. Mi spiego meglio. Ad esempio, da un punto di vista puramente normativo non siamo una forza di polizia, ma concretamente “facciamo” polizia a tutti gli effetti. E a richiedercelo sono proprio le istituzioni che si affannano a ribadire che non lo siamo. Abbiamo auto colorate, lampeggianti blu, sirene, divise, armi, manette, facciamo arresti, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, ma non siamo “polizia”. E già, che in Italia occorra chiamarsi in un certo modo per essere tali, a prescindere da quello che si fa, lo si sapeva già. Tutto molto chiaro per alcuni, tranne per i cittadini, ma soprattutto per i delinquenti, i quali neanche leggono il nome scritto sulle portiere… Loro sanno che se facciamo polizia, siamo Polizia e quindi ci trattano come tali, con tutte le conseguenze del caso.
E così avviene che tra il “bipolarismo” di un Ministero geloso e pignolo (talvolta) e le pronunciazioni ondivaghe delle alte corti di Giustizia, a farne le spese siamo proprio noi, le guardie cittadine afflitte dall’annoso dilemma della carne e del pesce. E’ anomala, poi, perché non si è mai vista una forza di polizia che sia alle dirette dipendenze della politica locale, magari dello stesso commerciante ambulante che fino alle elezioni si univa al coro degli anti-vigili ritenendoci solo addetti alla cassa, per poi esigere più autovelox una volta eletto; è anomala perché non si ha contezza a livello europeo di una forza di polizia, sebbene ad ordinamento locale, disciplinata da un contratto privatistico; è anomala perché fa “da polizia” ma senza le minime, necessarie garanzie di una forza di polizia. Dai dispositivi di autotutela, finanche all’armamento, alle tutele giuridiche, assicurative e previdenziali dei nostri cugini più fortunati (per modo di dire…). Insomma, siamo fottutamente anomali! E i nostri cugini europei ce lo dicono anche. Per la verità lo dicono anche al Ministero di cui sopra e alle altre istituzioni. Glielo ha detto anche il Parlamento Europeo, ma l’Italia è anche il luogo in cui abbiamo fatto del concetto “negare anche l’evidenza” il nostro credo. Lo vedono tutti, proprio tutti, che siamo Polizia. Ma non coloro che dovrebbero vederlo.
Tutto ciò conduce ad un sistema disfunzionale causato dall’enorme confusione in ordine alla percezione del ruolo che espletiamo. Chi ci dice che siamo una cosa e chi un’altra. E poi, quando siamo una cosa e quando un’altra. Questa confusione conduce nella migliore delle ipotesi a fare grandi cose, meritevoli operazioni, ma senza il minimo riconoscimento. Perché non si deve sapere che facciamo cose eccezionali. Ma si sa che fare cose eccezionali assumendosi grandi rischi senza avere il benché minimo riconoscimento, conduce l’operatore ad una condizione di demotivazione gravissima. Nella peggiore delle ipotesi conduce invece all’immobilismo. Immobilismo per paura o immobilismo per protesta. Non so quale dei due sia più grave e frustrante. Ma questi sono i due estremi tra cui oscilliamo. Nulla di allettante quindi.
Ma sono questi gli effetti più importanti e preoccupanti ad affliggere la nostra beneamata categoria? Io credo di no. Questi sono solo gli effetti diretti, visibili e “tangibili”. Quello che mi preoccupa di più è molto più grave, striscia nei meandri nelle nostra fila e serpeggia minacciosamente nei fondamenti più determinanti delle nostre esistenze. E’ un malessere profondo, sordo e lacerante. Lavora dentro di noi ogni giorno. Ogni volta che leggiamo una notizia denigrante del nostro lavoro sul giornale. Ogni volta che vediamo la foto martellante di un “vigile in mutande” che smarca il cartellino. Ogni volta che vediamo una delle tante fake (o non fake) news che ci riguarda su Facebook. Ogni volta che sentiamo pronunciare con sufficienza e tono di rivalsa la parola “vigili urbani”, dalle bocche di giornalisti che non ce la fanno proprio a pronunciare Polizia Locale (un po’ come Fonzie con la parola “scusa”). Ogni volta che ci chiama così anche un’istituzione, dimostrando o di non sapere chi o cosa siamo, o peggio, di saperlo ma di volerci chiamare così per consacrare la nostra relegazione ad altro che non sia Polizia. Ogni volta che un genitore dice al suo bambino “stai attento che il vigile ti fa la multa”. Ogni volta che parliamo con un poliziotto o un carabiniere che ci chiama collega solo quando ha bisogno. Ogni volta che…
Non so, caro collega, se hai mai sentito parlare della piramide di Maslow. No, tranquillo. Non si tratta della solita combutta degli illuminati. Ti invito ad incuriosirti e andarla a vedere. In essa c’è scritto quali sono i bisogni a cui tende l’essere umano per essere felice. Alla base della piramide ci sono i bisogni fisiologici (mangiare, bere, vestirsi, ecc…). Direi che qui ci siamo, anche se le risorse economiche che ci spettano ci consentono giusto di soddisfare questi bisogni primari e non certo di fare “pazzie”; poi ci sono i bisogni di sicurezza e protezione. Qui ne abbiamo abbastanza direi. Il coraggio non ci manca di certo; Salendo, per ordine di importanza, troviamo i bisogni di affetto e di appartenenza. Anche qui non difettiamo in genere. Anche se le nostre frustrazioni troppo spesso si ripercuotono sulle persone che amiamo e sulle nostre famiglie, divenendo esse stesse destinatarie delle nostre frustrazioni, in modo diretto o indiretto. Non dimentico di certo che siamo tra le categorie in cui il suicidio è divenuto un fenomeno preoccupante. Ma in linea di massima a noi non manca l’affetto dei nostri cari e molti gruppi sociali ci accolgono a braccia aperte; Negli ultimi due livelli, quelli più importanti e determinanti, cominciano i dolori. Il quarto livello è rappresentato dai bisogni di riconoscimento sociale. A noi non basta essere accolti in un gruppo, vogliamo anche sentirci importanti, essere ammirati, rispettati. Vogliamo essere al centro dell’attenzione, essere considerati, essere “qualcuno che conta”, o quantomeno “contare per qualcuno”. Già qui si intuisce che ciò che avviene è spesso esattamente l’opposto. Ma non per colpa nostra, ma per colpa di un sistema che ci addita sempre come un costante elemento disfunzionale. E quando sento colleghi che si vergognano di dire che lavoro fanno mi si accappona letteralmente la pelle. Dovremmo essere orgogliosi del nostro lavoro! Infine, l’ultimo bisogno, il più importante, è rappresentato dal bisogno di AUTOREALIZZAZIONE. In sostanza il desiderio di realizzare la propria identità in base alle proprie aspettative e potenzialità, occupare un ruolo sociale, dimostrare la propria utilità sociale, e così via. Si tratta, insomma, dell’aspirazione individuale massima a essere ciò che si vuole essere sfruttando le facoltà mentali e fisiche, per le quali ci si aspetta un automatico riconoscimento o feedback. Questo tipo di “sfera” individuale è per noi irrimediabilmente danneggiata.
Ma quali sono gli effetti di questa vera e propria “alienazione” del lavoro? Sono quelli che oggi sono sotto gli occhi di tutti: disomogeneità, conflitto sociale (soprattutto interno, tra di noi), percezione di inutilità del nostro lavoro, demotivazione, rabbia, insoddisfazione, ecc…
E sapere che tutto ciò è determinato dalla miopia, dall’incapacità o la malafede di chi ci governa o legifera non fa altro che amplificare il senso di frustrazione e gli effetti che ne derivano.
E così capita di assistere a colleghi che si scannano tra di loro come lupi famelici (da tastiera) sui social, sotto lo sguardo trascurato dei nostri riferimenti istituzionali, perdendo in immagine e credibilità. Siamo coesi alla pari di un gas. Siamo particelle impazzite che vanno dai rambo con mitragliette a conducenti di scuolabus o macchine operatrici. Ci rapportiamo tra di noi come non fossimo neanche parte di un tutto unico, ma di 8 mila realtà diverse, persino in competizione fra di esse. E chi ci governa alimenta tutto questo, negandoci persino di avere colori e distintivi uniformi in tutto il territorio nazionale.
E’ questo dannato complesso di inferiorità che ci distrugge! Magari anche alimentato da terzi, inducendoci a pensare che il nostro è un lavoro di serie B rispetto a quello svolto dai nostri cugini nazionali. L’idea che loro fanne le cose importanti e noi “i rimasugli” vari ed eventuali. Ma come siamo arrivati a credere questa sciocchezza? Chi ci ha convinto di questo? E perché? Perché non riusciamo a renderci conto che è tutto falso e una strumentale denigrazione? Perché non riusciamo ad andare fieri del fatto che noi riusciamo a fare quello che fanno loro (talvolta anche meglio) ma loro non saranno mai in grado di fare le altre mille cose che facciamo noi? Crediamo davvero che rilevare un incidente stradale con lesioni sia meno importante che fare indagini per rapina? Per quanto ancora dobbiamo insistere a lagnarci di essere i cugini poveri delle “vere” forze di polizia?
Finché non arriveremo a capire che siamo quello, ma anche altro e forse meglio, non andremo da nessuna parte! Non ci sarà cameratismo, spirito di corpo, colleganza, orgoglio di appartenenza.
Ma allora, nonostante tutto il nostro malessere, cosa ci unisce e ci anima? Cosa ci fa incazzare a tal punto da dire “basta! Non faccio più nulla” e a gettarci 5 secondi dopo dentro una casa in fiamme per salvare un’anziana signora? E cosa potrebbe mai essere se non IL NOSTRO GRANDE CUORE E L’AMORE SMISURATO CHE ABBIAMO PER IL NOSTRO LAVORO!? Proprio questi due elementi, radicati in ognuno di noi, rappresentano il vero “nodo” del problema. Rappresentano IL punto di forza e al contempo IL punto di debolezza della nostra categoria. Il punto di forza perché rendiamo un servizio eccezionale al nostro paese e ci rende indispensabili oltre che credibili. Il punto di debolezza perché chi ci osserva lo sa bene. Sa bene che noi non manchiamo alle nostre responsabilità anche quando non ci appartengono propriamente, pur non investendoci un centesimo. E se ne approfittano. Quello che succede ormai ordinariamente. Questo perché se è vero che noi amiamo il nostro paese, purtroppo il nostro paese non ama noi. Ma questo è solo un optional.
Segretario Regionale Agg. E/R
Giuliano Corso