La Polizia Locale: ignorata da tutti, ma non dal Coronavirus.

Qualcuno si è accorto di noi! Qualcuno si è accorto di quanto siamo presenti sul territorio e quanto siamo “vicini” alla gente… Finalmente! Direte voi.. Beh, non è proprio una fortuna. Perché ad accorgersi di noi in un modo così evidente non è lo Stato, il Governo o le forze di polizia. Ad accorgersi di noi è il VIRUS! Finalmente! Lui sa che esistiamo! E ci ha abbracciato facendoci capire che lui sì che è obiettivo e democratico. Lui è giusto. E adesso, magari, qualcuno di noi avrebbe voluto continuare ad essere invisibile. Il solito fantasma. Ma non c’è motivo di preoccuparsi.
Perché le istituzioni, anche quelle massime, hanno rafforzato il concetto che noi non esistiamo. L’ultimo DPR parla di tutti, ma proprio di tutti, tranne che di noi.
Fra poco l’unico modo che avremo per avere una sorta di filtro davanti alla bocca sarà quello di metterci in faccia un calzino riempito di cotone e carta forno, fatto seguendo uno dei tanti tutorial “fai da te” più per tenere impegnata la gente che per l’utilità degli oggetti.
Ancora una volta ci ritroviamo a fare la stessa attività dei cuginetti delle polizie “vere”, magari fatta meglio e di più, senza essere degnati neppure di uno sguardo, benevolo o malevolo che sia.
Lo fanno ancora una volta deliberatamente, scientemente ed impunemente. Perché sono consapevoli che tanto noi il nostro lavoro, o meglio, il nostro SERVIZIO lo rendiamo lo stesso. Perché siamo al servizio di qualcosa che è ancora più importante dello Stato e delle sue istituzioni. Anzi, rendiamo il nostro servizio nonostante lo Stato e le sue Istituzioni. Concetti talmente elevati che non meritano di essere infangati da lotte di quartiere o dalle miopie di burocrati incapaci.
Istituzioni che, a quanto pare, si dimostrano ancora una volta in malafede (perché non è che non sanno. Sanno e agiscono come se non sapessero) e soprattutto in preda al consueto “bipolarismo” che li connota. Ricordate la prefetta meneghina che oggi siede sullo scranno del ministero degli intenti (pardon) Interni? Si la Lamorgese . Non è una canzoncina, è proprio lei. Quella che finchè a livello locale non poteva far finta di non vederci si sgolava alla festa annuale della Polizia Locale di Milano dicendo che dovevamo essere riformati. Che non era giusto per l’intera categoria languire in uno stato di limbo normativo. Bene, lei! Quella che oggi, potendolo fare, nemmeno ci vede. Anzi, si è svegliata una mattina e ha decretato che anche noi dovessimo occuparci di polizia stradale. Insomma… è come se una persona, normodotata di senno e coscienza, sedendosi in quello scranno venisse “formattata” , “deframmentata“ e “riportata alle condizioni di fabbrica”. Come fosse stata colpita da una sorta di virus che neppure Kaspersky in persona sarebbe in grado di debellare. Lo abbiamo visto capitare a tutti coloro che, carichi di propositi nei confronti della nostra categoria, una volta entrati nell’ufficio sacro dei celerini, venivano colti da una sorta di trance recitando il mantra “I vigili urbani sono dipendenti comunali e non polizia”.
E allora… siamo ancora e sempre fantasmi.
Una delle cause più diffuse di quella che Marx definiva “alienazione”, ossia, detto con romanticismo, il disammoramento del nostro lavoro e la perdita della consapevolezza del nostro ruolo nella società. Quindi il mio suggerimento è: rinnoviamo questa consapevolezza!
Solo…. Evitiamo di commettere l’errore di identificarci in miti fuorvianti. Nel ruolo sbagliato insomma. Quello che dobbiamo fare è cambiare consapevolezza. Ossia, dobbiamo smettere di credere di essere poliziotti e quindi di FARE i poliziotti. E per far contento il RE e i suoi cortigiani assumiamo la consapevolezza di quello che loro vogliono che siamo: fantasmi!
Porca miseria! E’ così! Ora è tutto chiaro… perché nuotare controcorrente con il pericolo di sbattere contro gli scogli e affannarci inutilmente? Lasciamoci andare alla corrente. Ci trattano da fantasmi? Ottimo, e fantasmi siamo!
Io già mi trovo bene in questo ruolo. E per un attimo mi illudo di riuscirci. Sono un fantasma e non mi vede nessuno. Che pacchia!
Poi mi rendo conto che il cittadino mi vede bene. Anzi.. vede meglio me che i nostri cugini dalle divise sgargianti. E così pure le Procure. I magistrati non hanno tempo per le paturnie di cortile. Hanno bisogno di polizia giudiziaria e sanno molto bene che noi lo siamo e lo facciamo anche bene, se non meglio. E anche qui ci vedono bene. Anzi, direi che ci fanno le lastre!
Abbiamo scoperto che anche i medici ci vedono bene e anche loro ci fanno le lastre. Magari di tipo diverso. Si perché il cittadino non distingue le divise. Le vede bene tutte! E se deve metterne sotto qualcuna, magari volontariamente lo fa senza troppe cerimonie e distinzioni. Mannaggia… anche qui siamo visibili. E hanno scoperto, i medici, con accurati esami di laboratorio, che il sangue che esce dalle nostre ferite causate da coltelli, macchine o armi da fuoco, è rosso proprio come quello dei cugini diversamente colorati. Ma se ne guardano bene di diffondere questa notizia.
I giornalisti invece? Si quelli ci vedono, ma… sembra paradossale… sanno scrivere (non sempre) e non sanno leggere. E così nonostante sulle nostre divise e auto ci sia scritto POLIZIA LOCALE questi continuano a leggere “Vigili Urbani”. Sembra che si accorgano di noi solo quando marchiamo il cartellino in mutande, ma quando moriamo per aver condotto una lotta contro il malaffare della Terra dei Fuochi o trascinati da un SUV, allora siamo invisibili. O lo siamo molto poco o in modo “diverso”. Io li chiamo “cantastorie” i nostri giornalisti. Sapete chi erano i cantastorie o i menestrelli? Erano simpatici goliardi prezzolati che cantavano le storie che più si confacevano ai desideri dei padroni paganti e magari per deridere chi a loro proprio non andava a genio. Solo che questi ultimi erano simpatici e si sapeva che fossero leccapiedi del poterucolo.
E porca miseria adesso ci ha visto anche il VIRUS! Anzi, lui ci vede benissimo! E ci vede di più di quanto veda gli altri. E noi con le nostre divise che troppo spesso e stupidamente consideriamo come una sorta di schermo che ci protegge dal male, finiamo intubati in rianimazione. Ma ancora una volta da fantasmi.
Qualcuno penserà che questa versione romanzata sia oltremodo melodrammatica. E forse ammetto che un po’ lo sia. Ma è frutto di una scelta consapevole. Perché davanti ad una offesa o una umiliazione, NOI siamo abituati a reagire con il sarcasmo. Perché non possiamo esternare quello che pensiamo. E già.. non è proprio possibile. Si rischia di dare l’impressione che quello che pensiamo possa costituire un’offesa per ciò che abbiamo di più caro. La nostra Patria, il nostro Popolo e il Servizio che diamo ad essi e solo ad essi. E stiamo zitti perché non vorremmo mai che i meschini che ci governano in modo cinico e interessato, i guitti della politica e i virtuosi della pubblica sicurezza, si confondessero con i valori per cui ci sacrifichiamo ogni giorno. Abbiamo bisogno di credere almeno in questo. Essi sono una cosa, i valori per cui combattiamo e moriamo sono un’altra. E allora ci sta anche essere fantasmi.
Per quando poco valore voi diate alla nostra categoria, voi valete sempre meno.

Giuliano Corso

Segretario Regionale Agg. Emilia-Romagna

I COMPLESSI D’INFERIORITA’ E I SUOI DERIVATI.

La Polizia Locale in Italia è anomala. Questo è certo.
Ma è tutto un po’ anomalo nel nostro Bel Paese. Mi spiego meglio. Ad esempio, da un punto di vista puramente normativo non siamo una forza di polizia, ma concretamente “facciamo” polizia a tutti gli effetti. E a richiedercelo sono proprio le istituzioni che si affannano a ribadire che non lo siamo. Abbiamo auto colorate, lampeggianti blu, sirene, divise, armi, manette, facciamo arresti, perquisizioni, sequestri, intercettazioni, ma non siamo “polizia”. E già, che in Italia occorra chiamarsi in un certo modo per essere tali, a prescindere da quello che si fa, lo si sapeva già. Tutto molto chiaro per alcuni, tranne per i cittadini, ma soprattutto per i delinquenti, i quali neanche leggono il nome scritto sulle portiere… Loro sanno che se facciamo polizia, siamo Polizia e quindi ci trattano come tali, con tutte le conseguenze del caso.
E così avviene che tra il “bipolarismo” di un Ministero geloso e pignolo (talvolta) e le pronunciazioni ondivaghe delle alte corti di Giustizia, a farne le spese siamo proprio noi, le guardie cittadine afflitte dall’annoso dilemma della carne e del pesce. E’ anomala, poi, perché non si è mai vista una forza di polizia che sia alle dirette dipendenze della politica locale, magari dello stesso commerciante ambulante che fino alle elezioni si univa al coro degli anti-vigili ritenendoci solo addetti alla cassa, per poi esigere più autovelox una volta eletto; è anomala perché non si ha contezza a livello europeo di una forza di polizia, sebbene ad ordinamento locale, disciplinata da un contratto privatistico; è anomala perché fa “da polizia” ma senza le minime, necessarie garanzie di una forza di polizia. Dai dispositivi di autotutela, finanche all’armamento, alle tutele giuridiche, assicurative e previdenziali dei nostri cugini più fortunati (per modo di dire…). Insomma, siamo fottutamente anomali! E i nostri cugini europei ce lo dicono anche. Per la verità lo dicono anche al Ministero di cui sopra e alle altre istituzioni. Glielo ha detto anche il Parlamento Europeo, ma l’Italia è anche il luogo in cui abbiamo fatto del concetto “negare anche l’evidenza” il nostro credo. Lo vedono tutti, proprio tutti, che siamo Polizia. Ma non coloro che dovrebbero vederlo.
Tutto ciò conduce ad un sistema disfunzionale causato dall’enorme confusione in ordine alla percezione del ruolo che espletiamo. Chi ci dice che siamo una cosa e chi un’altra. E poi, quando siamo una cosa e quando un’altra. Questa confusione conduce nella migliore delle ipotesi a fare grandi cose, meritevoli operazioni, ma senza il minimo riconoscimento. Perché non si deve sapere che facciamo cose eccezionali. Ma si sa che fare cose eccezionali assumendosi grandi rischi senza avere il benché minimo riconoscimento, conduce l’operatore ad una condizione di demotivazione gravissima. Nella peggiore delle ipotesi conduce invece all’immobilismo. Immobilismo per paura o immobilismo per protesta. Non so quale dei due sia più grave e frustrante. Ma questi sono i due estremi tra cui oscilliamo. Nulla di allettante quindi.
Ma sono questi gli effetti più importanti e preoccupanti ad affliggere la nostra beneamata categoria? Io credo di no. Questi sono solo gli effetti diretti, visibili e “tangibili”. Quello che mi preoccupa di più è molto più grave, striscia nei meandri nelle nostra fila e serpeggia minacciosamente nei fondamenti più determinanti delle nostre esistenze. E’ un malessere profondo, sordo e lacerante. Lavora dentro di noi ogni giorno. Ogni volta che leggiamo una notizia denigrante del nostro lavoro sul giornale. Ogni volta che vediamo la foto martellante di un “vigile in mutande” che smarca il cartellino. Ogni volta che vediamo una delle tante fake (o non fake) news che ci riguarda su Facebook. Ogni volta che sentiamo pronunciare con sufficienza e tono di rivalsa la parola “vigili urbani”, dalle bocche di giornalisti che non ce la fanno proprio a pronunciare Polizia Locale (un po’ come Fonzie con la parola “scusa”). Ogni volta che ci chiama così anche un’istituzione, dimostrando o di non sapere chi o cosa siamo, o peggio, di saperlo ma di volerci chiamare così per consacrare la nostra relegazione ad altro che non sia Polizia. Ogni volta che un genitore dice al suo bambino “stai attento che il vigile ti fa la multa”. Ogni volta che parliamo con un poliziotto o un carabiniere che ci chiama collega solo quando ha bisogno. Ogni volta che…
Non so, caro collega, se hai mai sentito parlare della piramide di Maslow. No, tranquillo. Non si tratta della solita combutta degli illuminati. Ti invito ad incuriosirti e andarla a vedere. In essa c’è scritto quali sono i bisogni a cui tende l’essere umano per essere felice. Alla base della piramide ci sono i bisogni fisiologici (mangiare, bere, vestirsi, ecc…). Direi che qui ci siamo, anche se le risorse economiche che ci spettano ci consentono giusto di soddisfare questi bisogni primari e non certo di fare “pazzie”; poi ci sono i bisogni di sicurezza e protezione. Qui ne abbiamo abbastanza direi. Il coraggio non ci manca di certo; Salendo, per ordine di importanza, troviamo i bisogni di affetto e di appartenenza. Anche qui non difettiamo in genere. Anche se le nostre frustrazioni troppo spesso si ripercuotono sulle persone che amiamo e sulle nostre famiglie, divenendo esse stesse destinatarie delle nostre frustrazioni, in modo diretto o indiretto. Non dimentico di certo che siamo tra le categorie in cui il suicidio è divenuto un fenomeno preoccupante. Ma in linea di massima a noi non manca l’affetto dei nostri cari e molti gruppi sociali ci accolgono a braccia aperte; Negli ultimi due livelli, quelli più importanti e determinanti, cominciano i dolori. Il quarto livello è rappresentato dai bisogni di riconoscimento sociale. A noi non basta essere accolti in un gruppo, vogliamo anche sentirci importanti, essere ammirati, rispettati. Vogliamo essere al centro dell’attenzione, essere considerati, essere “qualcuno che conta”, o quantomeno “contare per qualcuno”. Già qui si intuisce che ciò che avviene è spesso esattamente l’opposto. Ma non per colpa nostra, ma per colpa di un sistema che ci addita sempre come un costante elemento disfunzionale. E quando sento colleghi che si vergognano di dire che lavoro fanno mi si accappona letteralmente la pelle. Dovremmo essere orgogliosi del nostro lavoro! Infine, l’ultimo bisogno, il più importante, è rappresentato dal bisogno di AUTOREALIZZAZIONE. In sostanza il desiderio di realizzare la propria identità in base alle proprie aspettative e potenzialità, occupare un ruolo sociale, dimostrare la propria utilità sociale, e così via. Si tratta, insomma, dell’aspirazione individuale massima a essere ciò che si vuole essere sfruttando le facoltà mentali e fisiche, per le quali ci si aspetta un automatico riconoscimento o feedback. Questo tipo di “sfera” individuale è per noi irrimediabilmente danneggiata.
Ma quali sono gli effetti di questa vera e propria “alienazione” del lavoro? Sono quelli che oggi sono sotto gli occhi di tutti: disomogeneità, conflitto sociale (soprattutto interno, tra di noi), percezione di inutilità del nostro lavoro, demotivazione, rabbia, insoddisfazione, ecc…
E sapere che tutto ciò è determinato dalla miopia, dall’incapacità o la malafede di chi ci governa o legifera non fa altro che amplificare il senso di frustrazione e gli effetti che ne derivano.
E così capita di assistere a colleghi che si scannano tra di loro come lupi famelici (da tastiera) sui social, sotto lo sguardo trascurato dei nostri riferimenti istituzionali, perdendo in immagine e credibilità. Siamo coesi alla pari di un gas. Siamo particelle impazzite che vanno dai rambo con mitragliette a conducenti di scuolabus o macchine operatrici. Ci rapportiamo tra di noi come non fossimo neanche parte di un tutto unico, ma di 8 mila realtà diverse, persino in competizione fra di esse. E chi ci governa alimenta tutto questo, negandoci persino di avere colori e distintivi uniformi in tutto il territorio nazionale.
E’ questo dannato complesso di inferiorità che ci distrugge! Magari anche alimentato da terzi, inducendoci a pensare che il nostro è un lavoro di serie B rispetto a quello svolto dai nostri cugini nazionali. L’idea che loro fanne le cose importanti e noi “i rimasugli” vari ed eventuali. Ma come siamo arrivati a credere questa sciocchezza? Chi ci ha convinto di questo? E perché? Perché non riusciamo a renderci conto che è tutto falso e una strumentale denigrazione? Perché non riusciamo ad andare fieri del fatto che noi riusciamo a fare quello che fanno loro (talvolta anche meglio) ma loro non saranno mai in grado di fare le altre mille cose che facciamo noi? Crediamo davvero che rilevare un incidente stradale con lesioni sia meno importante che fare indagini per rapina? Per quanto ancora dobbiamo insistere a lagnarci di essere i cugini poveri delle “vere” forze di polizia?
Finché non arriveremo a capire che siamo quello, ma anche altro e forse meglio, non andremo da nessuna parte! Non ci sarà cameratismo, spirito di corpo, colleganza, orgoglio di appartenenza.
Ma allora, nonostante tutto il nostro malessere, cosa ci unisce e ci anima? Cosa ci fa incazzare a tal punto da dire “basta! Non faccio più nulla” e a gettarci 5 secondi dopo dentro una casa in fiamme per salvare un’anziana signora? E cosa potrebbe mai essere se non IL NOSTRO GRANDE CUORE E L’AMORE SMISURATO CHE ABBIAMO PER IL NOSTRO LAVORO!? Proprio questi due elementi, radicati in ognuno di noi, rappresentano il vero “nodo” del problema. Rappresentano IL punto di forza e al contempo IL punto di debolezza della nostra categoria. Il punto di forza perché rendiamo un servizio eccezionale al nostro paese e ci rende indispensabili oltre che credibili. Il punto di debolezza perché chi ci osserva lo sa bene. Sa bene che noi non manchiamo alle nostre responsabilità anche quando non ci appartengono propriamente, pur non investendoci un centesimo. E se ne approfittano. Quello che succede ormai ordinariamente. Questo perché se è vero che noi amiamo il nostro paese, purtroppo il nostro paese non ama noi. Ma questo è solo un optional.

 

Segretario Regionale Agg. E/R

Giuliano Corso

La Polizia Locale e il terremoto: quello che una foto o le telecamere non possono raccontare… ciò che prova chi indossa una Divisa.

A raccontarcelo è il nostro Dirigente Sulpl di Bologna, Giuliano Corso. Abbiamo ritenuto giusto condividere le sue emozioni con Voi proprio oggi, giorno in cui lo sciame sismico continua a devastare il cuore dell’Italia. Ciò che lui ci racconta è qualcosa di molto intimo e sicuramente condiviso da chi questa esperienza l’ha vissuta, prestando soccorso alle popolazioni terremotate: è un’esperienza umana che ti arricchisce; riuscire a strappare un sorriso a quella gente con gli occhi velati di malinconia e disperazione, ricevere un loro grazie, ti riempie il cuore… ma le parole non bastano per descrivere ciò che un uomo o una donna in Divisa possono provare. Tutta la nostra vicinanza e il nostro sostegno alle popolazioni colpite dal sisma.t1

“Dalle foto non si vede la cosa più importante. Non si può vedere perchè non è tangibile. E’ la ricchezza che mi ha donato la gente del posto. Gente che ha perso tutto, ma che ha ancora la forza per ringraziare per ogni gesto e gentilezza che riceve. I loro sorrisi, il loro calore, la loro caparbietà a non arrendersi. Un’esperienza che mi ha arricchito e mi ha motivato a fare ancora di più per chi è in condizioni di difficoltà, sempre e ovunque. Ringrazio la Regione ed il Comune che mi hanno dato questa opportunità.”  (Cit. Giuliano Corso)

La Polizia Locale nelle aree terremotate del centro Italia

Siamo fatti così noi della Polizia Locale. Protestiamo e ci lamentiamo per una disattenzione, per non chiamarla indifferenza, che ormai si protrae da decenni. Pronti a minacciare misure di ogni genere pur di rivendicare il nostro ruolo e la nostra sacrosanta dignità. Ci hanno tolto tutto, o quasi. E quello che ci riconoscono ce lo presentano come una sorta di concessione di favore.
Eppure è sufficiente che qualcuno abbia bisogno di noi ed accorriamo da qualsiasi parte d’Italia, lasciando le “paturnie di cortile” a chi non ha altro a cui pensare, rimboccandoci le mani e rischiando, ancora una volta, le nostre vite. Sempre all’oscuro dei riflettori.
Le nostre divise non si devono vedere, non si devono leggere e non si devono riprendere. Eppure noi siamo sempre lì, al posto giusto nel momento giusto, ogni volta che c’è bisogno.
Ed eccoci anche qui, chi ad Arquata del Tronto, chi ad Amatrice e chi ad Accumoli o a Montegallo. Il centro nevralgico della tragedia del 24 agosto. Siamo lì dove la sofferenza ancora gela i cuori e la paura è pari solo alla voglia di risorgere.
E’ iniziata così la mia avventura a Montegallo. Il 25 agosto ho dato la mia disponibilità a recarmi presso le aree terremotate in aiuto alla popolazione, insieme a tanti altri colleghi. L’8 settembre la Regione ha richiesto 6 operatori di Polizia Locale da inviare il 10 successivo. E così è stato.
Siamo partiti in 6. Colleghi che non si erano mai visti prima d’ora che si incontrano come se si fossero sempre conosciuti. Silvia e Mirco del Corpo di Terre d’Argine, Samanta e Stefano del Corpo di Valsamoggia e Daniele ed io, Castel San Pietro. Arrivo a Montegallo in giornata e scambio di consegne con Fulvia, ispettrice ferrarese. La stanchezza di Fulvia, così come degli altri cinque colleghi, era evidente, anche se si leggevano nei loro volti i segni di un’avventura umana pervadente.
Pioveva quando siamo arrivati e ci siamo subito resi conto che l’impresa non sarebbe stata facile, né comoda. Il comfort dei nostri letti caldi ed asciutti ha lasciato il posto alle brande scomode e umide delle tende della protezione civile. Ricordo che all’interno della tenda l’acqua ristagnava formando delle pozzanghere sporche e gelide, delle quali al mattino ci eravamo dimenticati, ma che ci tornavano in mente non appena poggiavamo piede e a terra al risveglio, suscitando qualche risata e qualche sfottò cameratesco. Peccato che io fossi quasi sempre il primo a poggiare i piedi a terra.
Scomodità che non prendevamo mai sul serio e delle quali non ci siamo mai lamentati, consapevoli che per noi si sarebbe trattato di una settimana, mentre per gli ospiti del campo molto di più. Non potevamo quindi lamentarci. Un gruppo fantastico il mio. Donne e uomini che ho cominciato ad apprezzare sin da subito e con i quali ho stretto un legame profondo.
Sin dal primo giorno di lavoro, dopo un breve breefing, abbiamo dimostrato al campo che eravamo autonomi ed in grado di svolgere i nostri compiti istituzionali in perfetta indipendenza, conoscendo già a dovere il territorio, avendolo perlustrato il giorno prima con il contingente che ci ha preceduto. Ricordo che il responsabile ANCI della protezione civile, Marco, era visibilmente sorpreso di questa velocità. Ma è rimasto sorpreso anche di tutto il resto che nei giorni successivi è avvenuto.
Non c’è stato bisogno di chiedere ai colleghi di protrarre il lavoro oltre le consuete 6 ore quotidiane. Lo hanno fatto senza battere ciglio e senza esigere alcunchè in cambio. E così le nostre giornate di lavoro si sono protratte quotidianamente ben oltre, con una media giornaliera di 14 ore. Tre pattuglie automontate,sempre presenti ed efficientemente distribuite nel territorio.
Era così grande il nostro desiderio di stare vicino alla popolazione terremotata che anche solo un’ora di riposo ci sembrava tempo perso. Personalmente ero assetato delle continue esternazioni di gratitudine delle persone del luogo. Ed è ciò che più mi (ma mi permetto di dire “ci”) è rimasto impresso nel cuore in modo indelebile. Il calore e la franchezza che solo un popolo sofferente è in grado di dimostrare. E ne ho voluto fare incetta, come a lenire le ferite di un ventennio di lavoro mai riconosciuto e bistrattato. Finalmente la tanta gente che ci amava lo dimostrava in modo naturale e genuino. Credo che sia un po’ quello che ha mosso tutti noi a fare e dare tanto.
Certamente non sono mancate situazioni critiche. E non sono mancate neppure le solite gare a chi è più grosso e forte tipico di altre forze di polizia, le quali, sin da subito si rendevano conto del nostro vero valore e alla fine, anche nei gruppi chiusi di telegram, ci chiamano ora “fratelli”.
Ricordo una circostanza critica in particolare. In una delle frazioni di Montegallo è scoppiata una vera e propria “sommossa popolare” dovuta allo spiacevole compito degli ingegneri nel determinare l’agibilità casa per casa. Più di 30 cittadini assediavano due gruppi di ingegneri, i quali molto spaventati richiedevano l’intervento dei Carabinieri, presenti nelle 23 frazioni con una sola pattuglia.
Anche in quella circostanza siamo arrivati prima noi. Ricordo i volti sorpresi degli ingegneri, dei cittadini e degli stessi carabinieri (sebbene arrivati dopo di noi), quando hanno visto intervenire contemporaneamente tre pattuglie della Polizia Municipale. E’ stata sufficiente la nostra tipica capacità nel relazionarci con la gente per sedare subito gli animi, senza alcun sfoggio di forza per riportare la situazione alla normalità, terminando in una festa in cui i residenti facevano a gara per rimpinzarci di dolci e vin cotto. Proprio da quella situazione, così pericolosa se mal gestita, sono nate amicizie con persone del luogo che ancora oggi perdurano.
Furono i Carabinieri stessi a richiederci di fare servizio congiunto con loro non appena accorti della nostra efficienza e professionalità, pari a quella della maggior parte dei comandi di PL in Italia, ma sempre opportunamente celate.
Ricordo anche che un giorno vi era una troupe televisiva della RAI. Carabinieri, Vigili del Fuoco e Polizia di Stato (mai visti in tutta la nostra permanenza) erano stranamente numerosi quel giorno. E tutti curiosamente nella stessa angolare della telecamera. Era evidente quanto si adoperasse la troupe affinché nelle riprese non ci ricadesse anche una delle nostre divise. Non lo avrei mai detto se non fosse stato così evidente. Ma a noi non importava nulla.
Tutto ciò che ci importava, il sabato successivo, era di aver fatto un buon lavoro. Di aver dato sicurezza e donato il sorriso a quelle persone anziane e fragili i cui volti rimarranno sempre scolpiti nei nostri cuori.
Tante e importanti le attività svolte, dal controllo del territorio ad una efficacissima attività anti-sciacallaggio. Scorta ad ambulanze e vigili del fuoco. Vigilanza nelle zone rosse. Tutela e protezione delle popolazioni nel territorio e nei campi di accoglienza. Vigilanza ambientale e polizia stradale. Persino la tutela degli animali di affezione, lasciati soli nelle zone rosse, irraggiungibili per i residenti. Tantissime le gratificazioni, ma ormai devo sforzarmi per ricordarne i particolari. Ciò che risuona dentro di me come un eco inesauribile è una delle tante frasi rivoltemi da un’anziana donna con le lacrime agli occhi stringendomi la mano tra le sue: “Dio vi benedica. Tutto questo per una povera vecchia impaurita. Dovremmo inginocchiarci per ringraziarvi di tutto quello che fate per noi…”. Una musica completamente diversa da quelle che sentiamo nei nostri paesi. Questo le telecamere non lo hanno ripreso. E rimarrà sempre solo mio.

Giuliano Corso